Il Native rappresenta un cambiamento radicale nella comunicazione tra brand e consumatori sui social media, sui contenuti del proprio sito, nelle sezioni in-feed dei publisher e anche nei loro contenuti raccomandati
È stato Dan Greenberg (fondatore di Sharetrough) a fornire una delle prime definizioni di Native Advertising descrivendolo come “un formato grazie al quale i media costruiscono annunci che diventano parte del contenuto grazie ad un visual design coerente con il contesto”, invece, John LoGioco di Outbrain lo definisce più “simile al content marketing, ma più facile da comprendere” e a seguire Ian Schafer (CEO di DeepFocus) sostiene che il Native sia “una forma di advertising che approfitta di una piattaforma utilizzando le medesime modalità d’uso dei consumatori”.
A fare ordine definitivamente ci ha pensato nel 2013 lo IAB il quale ha cercato di dare una chiare definizione di Native Adv: “il native advertising fa riferimento ad annunci a pagamento coerenti con il contenuto della pagina, con il design e con il comportamento della piattaforma in cui sono ospitati, in modo che l’utente li percepisca semplicemente come parte di essa”. Si può quindi affermare che i contenuti Native non sono altro che contenuti presenti nel flusso di contenuti editoriali che si mimetizzano all’interno della pagina nella quale vengono ospitati.
Digressione storica
Il 27 ottobre 1994 nasce il Banner, un rettangolo con l’obbiettivo di indurre all’azione l’utente che gli si presentava davanti, nasce in quel momento il mercato della Display Advertising. Un mercato che successivamente avrebbe utilizzato svariati formati tra cui interstitial, rich media, pop-up e quant’altro raccogliendo investimenti sempre maggiori e mutando nel tempo i sistemi di valutazione delle performance da parte di editori e pubblicitari. Secondo Ben Shachter l’errore fondamentale della Display Advertising è stato di trasportare su Internet dinamiche appartenute alle carta stampata influendo negativamente sul potenziale comunicativo del messaggio pubblicitario.
Nel 2005 nasce l’advertising sui Social Network (leggasi Facebook) i quali si sono ritagliati uno spazio sempre più ampio nelle pianificazioni dei brand, finendo per risultare indispensabili. I brand possono raggiungere i consumatori ovunque si trovino e hanno la possibilità di targettizzare nel dettaglio: dettaglio difficilmente raggiungibile da altre piattaforme. Sinfonia per le orecchie dei pubblicitari che hanno così la possibilità di raggiungere un’elevatissima reach, rilevanza di contenuto e alti tassi di engagement degli utenti.
Negli ultimi anni con l’arrivo di YouTube è il formato video ad assumere una posizione interessante grazie al mix tra video e branded content, suddetto formato è stato reso ancora più potente e sempre più interessante agli occhi degli investitori riuscendo a raggiungere il 10% degli investimenti totali in internet advertising.
Il 2009 vede una svolta epocale per il digital advertising con la nascita del Real Time Bidding. IL RTB è un metodo per acquistare e vendere pubblicità grazie ad “aste” tra DSP (Demand Side Platform) e SSP (Supply Side Platform) e targettizzate sulla base di dati provenienti da DMP (Data Management Platform), ovvero, i brand possono acquistare impression pubblicitarie al miglior prezzo d’asta senza dover avere necessariamente comunicazione diretta con le concessionarie, i publisher, invece, godono di questa tecnica real time ottimizzando i loro spazi e facendo in modo di non lasciarli mai invenduti.
I limiti della Display Advertising oggi
Oggi la Display Advertising si trova ad affrontare svariate sfide tra cui l’attention e l’engagement dei consumatori nei confronti del messaggio pubblicitario: siamo continuamente bombardati da milioni di annunci offline e online, la battaglia alla conquista dell’attenzione è molto ardua da sostenere poichè il tempo delle persone è una risorsa limitata e l’esperienza utente (oggi più che mai) si sta frammentando tra diversi e molteplici device. Il CTR e l’interazione degli utenti con i banner sono crollati: secondo Google il tasso d’interazione con un banner pubblicitario è del 2,24%, dobbiamo quindi accettare che il banner non sia più uno strumento efficace per convincere gli utenti a compiere un’azione.
Lato viewability, comScore dichiara un’altra scomoda verità, ovvero, il 54% dei banner non viene nemmeno visualizzato dagli utenti: non tutti gli annunci sono inseriti in posizioni visibili della pagina. Più della metà delle impression pianificate dagli advertiser sono letteralmente buttate e il CPM dovuto dall’inserzionista al publisher è praticamente il doppio di quanto dichiarato.
Oltre ai problemi precedenti negli ultimi anni si è presentata un’altra gatta da pelare per il mondo della display advertising ovvero l’Ad blocking, quei tool che bloccano la visualizzazione dell’advertisement erogato impedendo agli editori e agli advertiser di costruire pianificazioni “realistiche” e di usare i dati (potenzialmente ottenuti) per ottimizzare il targeting. Rispetto a questo problema il Native sembra essere una soluzione efficace, le aziende forniscono un contenuto interessante per il lettore posizionandosi ove risiede l’attenzione dell’utente, una sorta di permission marketing nella Display. Gli users continuano a dimostrare insofferenza verso quei modelli pubblicitari che interrompono la fruizione dei contenuti e con la crescita inarrestabile della navigazione da mobile questa cosa si è ancora più accentuata.
Display vs. Content
Gli inserzionisti e i publisher si sono resi conto che il problema della Display Advertising non risiedesse tanto nella tipologia di formato ma nell’approccio di ingaggio verso gli utenti: si sarebbero dovuti creare contenuti di elevata rilevanza per gli utenti e che, al tempo stesso, generassero un basso tasso di bounce rate e un numero sempre più elevato di nuove sessioni e sessioni di ritorno. L’idea fulcro era che non bisognasse più vendere il prodotto ma privilegiare l’affermazione di marca unitamente al coinvolgimento attivo delle persone.
Il Native Advertising si fonda su questi capisaldi: proporre un contenuto in relazione alla fase del funnel in cui l’utente si trova: in top of the funnel il contenuto è pensato per raggiungere una massa considerevole di nuovi utenti (un pubblico non necessariamente targettizzato) che non conoscono il brand, non hanno mai utilizzato i suoi prodotti/servizi e non sono attivi entro i canali di comunicazione dell’azienda (sito web, canali social). I migliori contenuti non cercano di vendere direttamente il prodotto nè citano direttamente il brand, ma indirizzano verso un contenitore costruito ad hoc al fine di completare l’esperienza della campagna. Siamo nella fase in cui modifichiamo i valori della brand lift cercando di cambiare la percezione degli utenti nei confronti del nostro marchio.
In fase di consideration si utilizzano quei contenuti volti a qualificare al massimo l’interesse di prospect che già conoscono il brand e i suoi prodotti/servizi ma che ancora non hanno preso una decisione in merito. Per questi contenuti il targeting è più mirato coinvolgendo un pubblico con interessi e passioni specifiche generando conversazioni. Nella fase finale below of the funnel i contenuti devono essere iper-targettizzati, più razionali e informativi che emozionali, supportando l’utente e indirizzando la sua intenzione d’acquisto. Convincere quindi i potenziali clienti di essere la migliore opzione possibile sul mercato è l’obbiettivo di questa fase, annunci nativi e articoli sponsorizzati sono più efficienti di altre forme pubblicitarie nel portare utenti realmente interessati sulle nostre pagine di destinazione.
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E quindi?
Grazie al Native si è passati da un concetto di impressione ad uno di attenzione: è l’engagement la metrica fondamentale per misurare l’efficacia del Native Advertising. Il mondo digitale di oggi vede utenti alla ricerca di contenuti rilevanti con l’abitudine di scansionare rapidamente per blocchi una pagina . Il Native fornisce una valida risposta accompagnando questa abitudine e offrendo agli utenti contenuti interessanti nella forma e nel contesto in cui l’utente si aspetta di trovarli. I brand dovranno perciò aiutare i loro clienti mettendoli nelle condizioni di poter raccontare le proprie esperienze d’utilizzo cercando di localizzare questi racconti nei luoghi in cui possano avere il maggior impatto possibile.
L’advertising online nasce tabellare (come per stampa e tv), diventa performance (finalizzato a raggiungere obbiettivi in basso al funnel) e in ultimo è diventato social e personale con contenuti (nativi) creati apposta per essere condivisi sfruttando le relazioni digitali degli utenti.
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